World Press Photo 2016

Arrivo da un convegno sulla nuova editoria e su nuovi modi di fare magazine  senza appartenere al “mainstream” quindi sono stato esposto per una giornata a fotografie giovani contemporanee e a nuove idee editoriali non solo dal punto di vista grafico ma sopra tutto dal punto di vista inventivo cioè di giornalismo. Questa ventata di aria fresca può avere influenzato il mio modo di affrontare una analisi del World Press Photo 2016 vinto quest’anno da Warren Richardson.
Appunto per questo cercherò di suddividerla in maniera molto schematica secondo alcuni punti specifici.
Prima di iniziare vorrei fare due note metodologiche su alcuni fatti:

  1. Quest’anno non ho partecipato al WPP;

  2. Dal punto di vista delle immagini le foto sono molto belle anche se un po’ classiche, in quello che dirò non c’è alcuna volontà di sminuire il grande lavoro dei fotografi e della giuria a cui va il mio immenso e incondizionato rispetto;

  3. C’è stato un passo indietro rispetto alla libertà di racconto dello scorso anno, dove si è preso il pretesto di alcuni errori (gravissimi e non perdonabili) nelle modalità di ripresa per condannare un certo tipo di linguaggio. Attenzione perché fossilizzarsi in modalità di racconto che non sono più attuali vuol dire che si sta perdendo una parte di relazione sana con la realtà;

  4. Il WPP, l’ho già detto in varie occasioni, rappresenta il “mainstream” rappresenta l’establishment e il potere economico anche se prova a difendere la libertà di pensiero ma rientra nelle logiche reazionarie dei poteri da cui dipende.

Non parlerò di lavori specifici ma di alcuni punti che mi stanno particolarmente a cuore, onde evitare sbrodolate auto celebrative, noiosissime e di nessuna utilità al dibattito sullo stato e sul futuro del foto giornalismo. Questo non è un articolo per buoni cuori o belle anime questo è un articolo per operatori del settore che si chiedono dove andare e come andare e se c’è una possibilità di fare quello che amiamo fare o se è giunto il momento di appendere le macchine al chiodo.

Questi sono gli argomenti che tratterò:

  1. Perché si racconta;

  2. Cosa si racconta;

  3. Come si racconta;

  4. Quello che mi è piaciuto tanto. 🙂

China's Coal Addiction by Kevin Frayer

PERCHE’ SI RACCONTA

Se c’è qualcosa che traspare da questa edizione del World Press Photo è che c’è una attenzione molto forte alle ingiustizie del mondo siano queste nei confronti dei nostri simili  o nei confronti della natura o degli animali. C’è una tensione nello portare in scena, nel documentare e nello storicizzare alcuni argomenti topici. Quindi c’è una urgenza a parlare dell’altro da se ma di quell’altro da se che viene maltrattato che soffre, che lotta e che ha bisogno di essere rappresentato in modo che divenga “politicamente” rilevante ed il travaglio sia trasformato in “epica” e non dimenticato. Il foto giornalista si sente investito di una sorta di coscienza collettiva.
Comunque direi che quello che muove i foto giornalisti è una curiosità (positiva) una voglia di far vedere le storie che non devono essere dimenticate e questo è fondamentale. Lo spirito profondo del foto giornalista appare, almeno nelle intenzioni salvo

Ivory Wars by Brent Stirton

COSA SI RACCONTA

Le guerre, i rifugiati, gli abusi contro le donne soldato  (Mary F. Calvert), lo sfruttamento selvaggio, l’abbandono da parte delle istituzioni, la malattia (anche se il lavoro di Nancy Borowick la vede attraverso l’amore). Poca positività… L’amore grande nei confronti delle persone di cui viene documentata la vita non può essere rappresentato un po’ più spesso da storie alternative? forse è ora che il WPP ponga una nuova categoria Positive Stories. Anche queste hanno bisogno di diventare politicamente rilevanti di trasformarsi in un esempio di essere additate come referenti dalle istituzioni. Le scelte giornalistiche sono state abbastanza interessanti. A fianco di quelle con pochissima inventiva, in cui c’era solo la notizia (ok è il World Press Photo non è fotografia di ricerca 🙂 )… C’è stata un po’ voglia di premiare qualcosa di innovativo rispetto all’angolo che si decide di documentare in modo da non fossilizzarsi in una scelta di argomenti standard.  Dario Mitidieri (vecchia conoscenza della fotografia italiana)  che sceglie il ritratto con le seggiole vuote per rappresentare chi non ce l’ha fatta a raggiungere un porto sicuro scappando dalla patria in guerra o  Kazuma Obara che  racconta la storia di una bimba morta a Chernobyl 30 anni fa… O ancora l’idea bellissima e poetica di Magnus Wennman che fotografa dove dormono oggi i bimbi rifugiati siriani che hanno perso il loro paese… Per fortuna, oltre alla realizzazione è stata premiata una “idea” foto giornalistica. Di questo c’è un enorme bisogno. Di trovare storie nuove da raccontare di inventarsi dei format che non seguano quelli ritriti della televisione e della informazione veloce e spiccia tipica di internet. Chi vuole oggi provare a fare il foto giornalista deve trovare delle modalità non battute dagli altri… Lo diceva sempre Mario Dondero: “non ho i soldi dei grandi magazine però ho la testa…” Anche le storie più forti (come appunto i rifugiati) hanno bisogno di punti di vista non solo convenzionali.

Dario Mitidieri, Lost Family Portraits

COME SI RACCONTA

Dopo l’affaire Troilo dell’anno passato e le scelte molto discusse della giuria capitanata da una spregiudicata Alessia Glaviano  (mmm… ad un anno di distanza penso che sia stata niente male, qualche errore “ma scelte”) c’era il rischio che si condannasse un certo “modo” di raccontare storie penalizzando le innovazioni di linguaggio… E’ successo? In parte… Ho trovato foto poco “coraggiose” poco Alec Soth o Joakim Eskildsen per intenderci e anche nel reportage classicone ho visto un passo indietro nella distanza di ripresa… Foto un po’ più approssimative ma un pelo distaccate, pochi tagli potenti alla Eugene Richards o poetici e durissimi alla Matt Black…  Per fortuna chi avuto idee giornalistiche interessanti ha anche avuto la capacità di trovare delle soluzioni personali che guardano alla contemporaneità alla contaminazione con il cinema l’arte e la letteratura… Lo story telling è stato un po’ sotto valutato… certo 8 foto sono poche per raccontare una storia ma sono mancate delle sorprese, qualcosa in grado di farsi ricordare ( a parte  Kazuma Obara)

Kazuma Obara,Exposure

COSA MI E’ PIACIUTO
Va bene  mi sono scoperto… Kazuma Obara… Però quello che mi ha sicuramente rinfrancato è che c’è ancora la possibilità di  raccontare storie provando a ricercare invenzioni. Bisogna però allontanarsi dal “mainstream” e cercare qualcosa di indipendente oggi l’editoria innovativa in termini di argomenti e di linguaggi non passa più dai grandi magazine e dai grandi giornali ma dalla stampa indipendente e libera che alla ricerca di nuovi immaginari che possano interessare nicchie di lettori disposti a comparare i loro prodotti e che prodotti: piccoli gioielli, piccoli oggetti in serie limitata.
Insomma il foto giornalismo è morto…. forse… forse no… anzi no… è vivo.. vivissimo e non morirà mai… di sicuro è ora di guardare altrove proviamo  magCulture di Jeremy Leslie

Per chi volesse vedere qualcosa d’altro di Kazuma Obara qui un video del suo libro fatto a mano “Silent Histories” buona visione:

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